Un'analisi del lavoro irregolare nella crisi
C’è accordo nella letteratura economica e manageriale che per un buon funzionamento i sistemi economici di stampo capitalistico debbano possedere un apparato di norme e istituzioni volte a disciplinare il comportamento dei vari soggetti economici in questione, in particolare le aziende e i lavoratori, per consentire anche in un libero mercato il perseguimento dell’interesse individuale e collettivo, migliorando in maniera costante la qualità e quantità dei beni e servizi disponibili favorendo così l’imprenditorialità (Lucifora 2003).
Poiché l’insieme di tali norme rappresenta una fonte di costi e vincoli sommati ad altri oggetti di costo, non poche aziende tendono a sfuggire ai meccanismi istituzionali creando una competizione sleale, dando luogo all’economia sommersa caratterizzata appunto da transazioni informali e la non osservanza dei vincoli di legge. La presenza notevole dell’economia non dichiarata si riflette sul benessere collettivo costituendo più rischi per la tutela di persone e cose, in modo diretto per quanto riguarda la perdita dei contributi previdenziali, e in modo indiretto in quanto distorce le regole della concorrenza all’interno di un paese, diffondendo una cultura della illegalità, fermo restando la riduzione delle entrate per lo Stato, il quale dovrà a sua volta limitare l’offerta dei servizi pubblici che incidono anche sulla competitività aziendale oltre che sul benessere della popolazione .
Questo fenomeno ha suscitato l’attenzione di studiosi e di operatori nella politica economica, oltre che dell’Italia e di molti paesi dell’Unione Europea la quale ha inserito anche la lotta all’economia sommersa nel piano dello sviluppo e della cooperazione tra i paesi, per divenire poi oggetto a livello nazionale e in ambito comunitario nei Piani d’azione nazionale, nei Documenti di programmazione economica e finanziaria e nelle diverse leggi finanziarie licenziate dal Parlamento le quali definiscono una serie di provvedimenti per combattere il fenomeno.
Le cause di vario ordine attestano la natura complessa e variegata del fenomeno in questione: l’elevata pressione fiscale; l’eccesso di regolazione organizzativa dell’attività d’impresa; l’incertezza di una pena; la corruzione; la povertà; la disoccupazione. Il lavoro irregolare infatti, pur basandosi su rapporti di sfruttamento e di subordinazione per i lavoratori, in certi casi è anche frutto di un accordo tra lavoratore e il datore di lavoro in quanto è nell’interesse di quest’ultimo ridurre i costi del lavoro e nell’interesse dell’impiegato percepire in maniera diretta la retribuzione lorda.
L’importanza del tema risiede nel fatto che comprende tutte quelle attività che contribuiscono alla formazione del reddito e della ricchezza di una nazione, senza però essere rilevate nelle statistiche ufficiali, di conseguenza si mette in luce la difficoltà di individuare e misurare qualcosa che è occulto; nel contempo però le imprese e i lavoratori nonostante operano in un’area nascosta dell’economia, sono pur sempre a contatto con l’economia formale, in quanto vediamo che soprattutto nei paesi industrializzati i beni e servizi prodotti nell’economia sommersa vengono poi venduti a consumatori che nascosti non sono.
La difficoltà nella rilevazione deriva dalla complessità dell’economia che non si può osservare direttamente e nella quale sussiste un’ampia distinzione tra attività informali non legali e non monetarie, attività semplicemente informali ma non illegali e monetarie, attività formali, e attività informali illegali ma non monetarie.
Tuttavia l’enfasi attribuita al tema è connessa ai suoi effetti negativi in quanto si ritiene che l’economia sommersa costituisce una perdita di efficienza per il sistema economico in quanto opera in assenza di regole, in condizioni di precaria tutela dal lato dei lavoratori, e di concorrenza sleale riguardo le imprese.
In Italia il valore dell’economia sommersa si attesta sui 333 miliardi contro i 351 della Germania, ma il peso del fenomeno sul nostro PIL è stimato tra il 17% e il 21%, contro il 13% della Germania, in quanto nella penisola all’economia sommersa si somma quella illegale per un valore compreso tra il 9% e l’11% del PIL (pur essendo l’economia tedesca molto più grande in valore assoluto); se prendiamo in considerazione il Sud, riscontriamo un incidenza del 27% sul PIL dell’economia sommersa, e dell’11% dell’economia criminale.
In questo lavoro si è fatta luce sui metodi diretti e indiretti per rilevare il fenomeno, non mancando di esporre le politiche atte a contrastare l’irregolarità finendo poi per analizzare il caso specifico del Mezzogiorno nel quale oltre ad esserci una più diffusa illegalità, è l’area maggiormente coinvolta nella disoccupazione. A seguito di un confronto tra il Sud e le altre regioni d’Italia, cercheremo di contestualizzare il fenomeno nel periodo di recessione italiana che va dal 2007 al 2013 osservando se e come si è trasformato il fenomeno.
La tesi è articolata in quattro capitoli: nel primo si fa chiarezza sulla dimensione concettuale del fenomeno, sia per quanto riguarda l’eccesso della terminologia presente nella letteratura specialistica, sia descrivendo le varie forme che il lavoro irregolare può assumere. È importante capirne le diverse sfumature concettuali associate ai vari termini in uso, in quanto un’attività può svolgersi nella parziale o totale irregolarità, esponendo inoltre le cause dell’irregolarità e le condizioni di differenziazione che favoriscono la formazione del lavoro sommerso.
Nel secondo capitolo si parla dei provvedimenti atti all’emersione del lavoro irregolare. Saranno descritti e analizzati i tre piani principali: in primo luogo “i contratti di riallineamento” che inaugurano la prima fase delle politiche per l’emersione, prendono avvio nel Mezzogiorno negli anni 80 e si basano su accordi, detti appunto “accordi di gradualità” stipulati a livello provinciale tra le associazioni degli imprenditori e organizzazioni sindacali di rilievo. L’obiettivo di questi accordi è dar luogo alla riemersione attraverso una negoziazione triangolare che coinvolge le aziende, sindacati e attori pubblici con il duplice scopo di rappresentare uno strumento di ordine pubblico e una misura fiscale e del lavoro per la protezione dei livelli occupazionali nei territori in cui lo sviluppo economico e produttivo manca. I contratti di riallineamento hanno avuto un impatto positivo sulle realtà grigie nelle quali l’irregolarità deriva dalla parziale evasione di obblighi retributivi (Svimez, 2001), ma non sulle realtà nere caratterizzate da forme estreme di sommerso, in quanto l’esperienza del riallineamento si è soffermata più sulla regolarizzazione degli aspetti contributivi, fiscali e retributivi piuttosto che sul territorio non prestando attenzione alle diseconomie esterne dei sistemi produttivi meridionali. Sarà invece compito de “Il Comitato nazionale per l’emersione del lavoro irregolare” istituito negli anni 90, prendere provvedimenti per abbattere le diseconomie esterne che ostacolano la sostenibilità delle imprese. Nell’ottica del Comitato l’emersione diviene una prospettiva di sviluppo e qualificazione del sistema produttivo la cui idea è da un lato rafforzare l’attività di prevenzione e vigilanza e dall’altro di attuare interventi di regolarizzazione compatibili con l’evoluzione economica delle imprese.
Ulteriore misura è Il “Piano per l’emersione”, introdotto dalla legge 73 del 2002 di cui si fa portavoce il governo Berlusconi, il quale rappresenterà la crisi del Comitato in quanto, fondandosi sulla logica della sanatoria mal si integra con l’approccio del Comitato. Tuttavia dal punto di vista territoriale registra riscontri positivi in Puglia con il 65% dei lavoratori emersi (Megale e Tartaglione, 2006).
Nel terzo capitolo si descrive la metodologia diretta e indiretta, quindi in che modo possiamo far luce su ciò che è sommerso e quindi invisibile. I “metodi diretti” privilegiano l’indagine dell’attività sommersa sul campo, quelli “indiretti”, per misurare la diffusione del sommerso si avvalgono del confronto tra varie fonti statistiche, infine quelli “misti” che combinano diverse metodologie. La metodologia più importante, ed è quella a cui si farà riferimento è quella utilizzata dall’Istat che rientra nella stima della contabilità nazionale, la quale utilizza metodi diversi a seconda della branca di attività economica in analisi.
Il quarto capitolo è dedicato ai settori e le aree geografiche in cui si concentra il lavoro irregolare, nel periodo di recessione italiana che va dal 2007 al 2013, discutendo in modo particolare sul fenomeno nel Mezzogiorno. Nel periodo preso in esame il lavoro irregolare nel Mezzogiorno ha registrato un andamento crescente in determinati settori specie nel primario e nel terziario in quanto presentano un’elevata intensità di lavoro, stagionalità delle attività e un elevato livello di turnover, coinvolgendo maggiormente lavoratori stranieri i quali trovandosi in condizioni di soggiorno irregolare si inseriscono facilmente in occupazioni irregolari. Nel Mezzogiorno il lavoro irregolare è di necessità causa carenze nella struttura produttiva e sociale e la grande disoccupazione che interessa la gran parte della popolazione, a differenza delle regioni del Nord nelle quali assume un carattere di convenienza. Durante la crisi si sono registrati dei cali delle unità irregolari nelle regioni del Centro Nord, a differenza del Sud in cui si è avuto un notevole aumento: secondo il segretario della CGIA Giuseppe Bertolussi, il sommerso attutisce gli effetti della crisi ed in modo particolare nel Mezzogiorno quando le forme di irregolarità non sono legate ad attività illecite costituiscono un paracadute per cassaintegrati, disoccupati e pensionati i quali stentano ad arrivare alla fine del mese (CGIA Mestre, 2013).
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