Intervista di Benedetto Vecchi ad Alain Touraine, pubblicata il 17 febbraio 2010 da Il Manifesto.
L'eclissi del modello neoliberale di globalizzazione produce disoccupazione e una dilagante precarietà, ma non coincide con il ritorno al capitalismo degli stati nazionali. Semmai alimenta un rinnovato individualismo che vede donne e uomini in movimento per affermare i propri diritti, uno stile di vita comunitario o una identità culturale e religiosa. Un'intervista con lo studioso francese
Le moderne società al centro della scena l'individuo. E non potrebbe essere altrimenti, perché sono plasmate e dominate da un principio di individuazione che mette in discussione il concetto stesso di società. Una tesi, questa, che lo studioso francese Alain Touraine presenta come esito di un fenomeno di lunga durata, iniziato nei gloriosi e dorati trenta anni di sviluppo economico interrotti dalla crisi petrolifera del 1973 e accelerato con la globalizzazione. L'individuo che Touraine presenta è sì consapevole dei suoi diritti e si «mette in movimento» per affermarli, ma al tempo stesso rifugge ogni nostalgia per trasformazioni messianiche della società. D'altronde, Touraine si è sempre definito un «riformista radicale» e vede, nell'agire politico, l'ambito per affermare l'autonomia e l'indipendenza dei singoli dal potere costituito. Allo stesso tempo, non offre nessuna lettura apologetica di questo «nuovo individualismo», insistendo semmai sui rischi di autoreferenzialità. Alain Touraine è in Italia su invito della facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, dove ha presentato il suo ultimo libro - Pensiero altro, Armando editore -, mentre per oggi è prevista una sua Lectio Magistralis alla facoltà di Architettura di Roma (ore 10, via di Valle Giulia).
Nel suo libro «Pensiero altro» lei sostiene che la società non esiste più, mentre l'individuo è diventata la figura che meglio spiega le tendenze profonde del vivere collettivo.....
La società non esiste più come strumento analitico. L'individuo a cui faccio riferimento non è però da considerare una via d'uscita dalla difficoltà di rappresentare analiticamente la società. Parto dalla constatazione che nel capitalismo esiste la forte tendenza a individualizzare tutto, dai consumi ai rapporti di lavoro. Potremmo parlare di una società di individui ma, così facendo, si alimentano molti equivoci. È dunque necessario articolare meglio le tipologie emergenti di individuo.
C'è l'«individuo consumatore», verso il quale le imprese guardano con attenzione per meglio affinare le loro strategie di marketing. Ci sono poi uomini e donne che, in quanto individui, vogliono vivere con chi ha le stesse convinzioni religiose o identità culturali. È questa la tipologia dell'«individuo comunitario». C'è, infine, chi vuole affermare i propri diritti, ritenendoli diritti universali. Qui ci troviamo di fronte a «soggetti» illuministicamente intesi.
La compresenza di questi tre tipi di individuo può essere meglio compresa se facciamo riferimento al concetto di Anthony Giddens sulla modernità riflessiva. Lo studioso inglese ha sostenuto che le moderne società capitaliste hanno sviluppato una capacità riflessiva sulle conseguenze delle scelte prese collettivamente. Per questo, tanto la scelta che le procedure per applicarla sono fortemente condizionate da tale capacità riflessiva. Una tesi che merita di essere applicata all'individuo, perché tutte e tre le tipologie che ho illustrato manifestano tale «riflessività». Così i consumatori non sono prede inermi delle strategie di marketing, ma sviluppano una loro capacità di autonomia dal mercato. Lo stesso si può dire degli «individui comunitari», che non considerano la loro comunità elettiva una gabbia.
Sono però tipologie che possono essere attraversate dalla stessa persona. Un individuo può autorappresentarsi come consumatore, ma anche come un esponente di quel comunitarismo che fa leva sul concetto «io-noi», oppure quale soggetto portatore di diritti...
Mi sembrano invece tipologie impermeabili. Per quanto suggestiva sia la tesi di Giddens sulla modernità riflessiva, questo non cancella il rischio che sia l'individuo-consumatore che l'individuo-comunitario che il soggetto, si chiudano in loro stessi. Oltre che riflessiva, la nostra è una società simbolica. Rispetto al passato, gli individuo producono e controllano la produzione dei simboli che ritengono rilevanti nella loro vita. Possiamo dire che ognuno desidera essere riconosciuto anche come produttore di simboli. La lotta per il riconoscimento può condurre a una chiusura rispetto all'Altro, a quella impermealizzazione che io vedo operante nella realtà contemporanea.
Oltre alla morte della società, lei sottolinea l'eclissi dei movimenti sociali...
Più che eclissi, c'è la crisi del paradigma che vedeva i movimenti sociali come espressione di determinati interessi economici, di gruppo o di classe. Da molti anni io sottolineo la rilevanza dei temi culturali e dell'identità nei movimenti sociali. Ma suppongo che lei volesse chiedermi se anche questa lettura dei movimenti sociali sia entrata in crisi. Beh, credo che ci sia stato un mutamento importante. Chi partecipa ai movimenti sociali, non è solo interessato a qualificarli dal punto di vista della cultura o dell'identità che vuole riconoscimento. Ci mette anche una forte componente di affettività, di cura di sé e dell'altro, come emerge per esempio dai movimenti femministi.
In questi giorni, ho incontrato alcune uomini e donne che voi in Italia chiamate il «popolo viola». Sono rimasto colpito dal pathos, dall'insistenza sulla cura della democrazia, della costituzione politica, del legame sociale. È questa affettività la vera novità. Più che parlare di movimenti sociali, possiamo dire che ci sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino.
Questa idea di mettersi in cammino, in viaggio, è molto zapatista, un movimento che lei ha studiato...
Gli zapatisti hanno operato una rottura con le vecchie concezioni della guerriglia latinoamericane. Hanno preferito l'espressione «camminare, domandando». In questo, prefiguravano che non c'era una realtà sociale organizzata e predefinita, ma uomini e donne disposti a mettersi, come dice lei, in movimento. In forme diverse, accade anche da noi che ci si metta in cammino per affermare diritti, identità culturali, stili di vita.
Lo studio delle società si nutre sempre di immaginazione: una immaginazione finalizzata a concettualizzare realtà, fenomeni non contemplati dall'accumulo analitico ereditato dal passato. Due anni fa, è accaduto un imprevisto, la crisi economica. Non le sembra che questo fenomeno inatteso metta in discussione le sue tipologie sull'individuo?
Ho seguito con molto interesse le discussioni sull'incapacità degli economisti di prevedere la crisi. E mi ha colpito la spiegazione data. Per alcuni, l'incontro della prospettiva neokeynesiana con quella neoclassica ha incentivato l'uso di modelli matematici che non avevano nessun rapporto con la realtà. Ma al di là di questa spiegazione, ci sono stati economisti, non sospetti di estremismo, che invece della possibilità di crisi ne hanno scritto. Mi riferisco a Amartya Sen, Paul Krugman e Joseph Stiglitz che, per spiegare quello che poi è effettivamente accaduto hanno usato ordini del discorso che con l'economia aveva pochi punti di contatto. La crisi, secondo me, non mette in discussione questa centralità dell'individuo. Anzi, c'è il rischio che accentui i rischi della chiusura, l'impermealizzazione di ognuna delle diverse tipologie di cui ho parlato prima.
Eppure è una crisi che ha effetti tellurici, sia socialmente che politicamente. Lei ha sostenuto che la globalizzazione era un fenomeno irreversibile. Domanda da avvocato del diavolo: non è che la crisi abbia messo in moto un fenomeno di deglobalizzazione?
Non ne sono affatto convinto. Quello che è entrato in crisi è il modello di globalizzazione neoliberale a egemonia statunitense.
Non può però negare che la crisi metta in discussione l'equilibrio tra dimensione globale e dimensione locale, dove il globale comandava sul locale?
Preferisco parlare di dimensione glocale, per quanto sia un termine poco attraente. Negli anni passati, i teorici neoliberali della globalizzazione hanno sempre parlato di esautoramento, se non di fine dello stato nazionale. Era una tesi sbagliata. Lo stato-nazione ha sempre svolto un ruolo importante nella globalizzazione. Non solo di interfaccia tra dimensione globale e dimensione locale, ma come processo di adattamento glocale. Lo stato è stato importante perché ha costituito l'ambito di tenuta della democrazia rispetto al potere dell'economia. Inoltre ha cercato di salvaguardate quei diritti sociali di cittadinanza che hanno caratterizzato le società capitaliste. La crisi può avere effetti tellurici non per quanto riguarda la globalizzazione, cioè quella stretta interdipendenza tra economie e realtà sociali nazionali, ma proprio per la democrazia. Uno degli effetti può essere invece l'emergere di stati autoritari e antidemocratici sulla scena globale.
La crisi significa anche disoccupazione. In Francia abbiamo assistito a conflitti dove operai sequestravano dirigenti di imprese, minacciando di far saltare gli stabilimenti. Oltre alla drammaticità della situazione, emergeva una realtà operaia che poteva essere meglio spiegata con il meccanismo della rivolta dei poveri. Lei che ne pensa?
Ho seguito con interesse anche alcuni conflitti operai in Italia, dove i lavoratori andavano sui tetti delle fabbriche: quando c'è crisi, il movimento operaio è sempre in difficoltà e talvolta può scegliere forme di lotta che non appartengono alla cultura politica del movimento stesso. È sempre stato così. Ma dobbiamo fare i conti anche con il fatto che la globalizzazione neoliberale ha significato aumento della precarietà. Forse stiamo assistendo a forme di lotta di un movimento operaio dove la maggioranza dei lavoratori è precaria. Per il momento, sono spettacolari, ma non violente. Non è detto che con la crisi le cose non cambino.
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