Nei suoi lavori parlando
del salariato ne evidenzia la natura ambivalente di emancipazione e di
alienazione, ma anche che il suo successo ha posto le basi per un’aspirazione
diffusa a tale statuto del lavoro da parte di chi né è rimasto escluso.
L’istituzione
salariale è fondamentalmente ambivalente: da una parte è «liberale», si basa
sul contratto (espressione della libera volontà delle due parti); dall’altra è l’affermazione
della subordinazione del lavoratore al datore di lavoro. È «emancipatrice»
perché si è sostituita ad altre forme di controllo sociale del lavoro, basate
sulla soggezione personale (schiavitù, servitù o lo stesso patriarcato), ma
induce anche, come sottolineava Marx, a una forma di alienazione, poiché il
lavoratore non è proprietario del risultato del proprio lavoro ed è sottomesso
alle regole dell’organizzazione del lavoro. La controparte di quest’alienazione
è una certa sicurezza (comunque relativa) che spiega l’aspirazione crescente al
lavoro salariato. Contrariamente a quello che spesso si crede, nel corso di
questi ultimi decenni, il numero di lavoratori salariati in paesi come la
Francia o l’Italia non è diminuito. Al contrario è aumentato - e in particolare
per la salarizzazione crescente delle donne - fino al punto da rappresentare
una forma di esclusione per quelli che non rientrano in questa forma di
occupazione e non beneficiano del sistema di protezione collegato.
Nel 2000 l’associazione
degli industriali francesi (MEDEF) propose in un programma il ritorno ai
principi di una “libertà del lavoro”, che originariamente lei ritrova anche tra
i primi pensatori socialisti, ciò che implicava un superamento della dimensione
del rapporto salariale.
La
critica del lavoro salariato è ricorrente e proviene da diversi schieramenti ideologici.
I primi pensatori liberali erano molto critici verso il lavoro salariato perché
in contraddizione con la loro concezione della completa libertà del soggetto.
Molti tra i pensatori socialisti, a cominciare da Marx, erano per l’abolizione
del lavoro salariato per le conseguenze alienanti a danno dei lavoratori e per
le condizioni di sfruttamento che vi erano implicite. Anche i seguaci del
corporativismo, come gli ideologhi del fascismo, indicavano nel superamento del
lavoro salariato la condizione necessaria per una vera cooperazione tra
padronato e lavoratori. Ciò nonostante il lavoro salariato «resiste», perché
corrisponde a una forma di equilibrio, sicuramente fragile e imperfetta, tra
forze contraddittorie.
La recente crisi
economica ha riproposto una difesa del lavoro salariato per le migliori garanzie
di accesso alla protezione sociale. Cosa pensa a questo proposito?
Quando
la disoccupazione è alta, il lavoro salariato è rivendicato soprattutto dai
lavoratori che desiderano essere protetti rispetto ai rischi delle crisi. In
questa fase invece i datori di lavoro rivendicano forme di occupazione le più
«flessibili» possibile. Ma questa osservazione può essere fuorviante, poiché
quando il mercato del lavoro è favorevole ai salariati (situazione di
crescita), sono i datori di lavoro che cercano di stabilizzare la manodopera e
ciò spiega le politiche «paternalistiche» che hanno avuto corso in Europa nel
XIX e all’inizio del XX secolo. In una recente ricerca che sto conducendo nella
regione di Tangeri in Marocco, un’area che sta vivendo una rapida crescita
industriale, ho osservato strategie di questo tipo tra le imprese
multinazionali del settore auto. Queste hanno il problema di trattenere la
manodopera per effetto di un turnover causato dalla maggiore mobilità dei
lavoratori che dipende dalla concorrenza tra le imprese, che offrono
periodicamente salari più alti per attrarre i lavoratori.
Scrivete che in origine
il termine salario indicava il compenso per un’azione criminale, ma che poi nel
corso di un secolo il suo significato è completamente cambiato.
La
parola «salario» viene dal latino «salarium»: razione di sale del soldato.
Questa dunque rinvia all’idea del reclutamento, della sottomissione a colui che
paga, come per il mercenario. Questa connotazione negativa del termine si è
mantenuta per lungo tempo in francese. Louis Say, economista e industriale,
fratello del grande economista liberale Jean-Baptiste Say, scriveva nel 1836:
«In francese la parola salario ha quasi sempre un significato negativo. Si dice
che quello ha ricevuto un salario per questa cattiva azione; si dice il salario
del crimine e non il salario del lavoro». Ancora nel 1932 il giurista Jean
Lescudier scriveva: «C’è una tendenza più o meno affermata tra i ceti medi a
considerare solo l’operaio come un salariato con tutto quello che questo
termine può comportare di peggiorativo con riferimento alle masse...». C’è
voluto molto tempo affinché il termine «salario» acquisisse una connotazione
positiva. L’evoluzione del significato della parola ha accompagnato l’estensione
del lavoro salariato che si è progressivamente generalizzato a tutti gli ambiti
della società. Oggi i salariati rappresentano in Francia il 90% della
popolazione attiva e la stessa classe «borghese» è ampiamente salariata.
Scrivete che Marx ha
messo in guardia i suoi lettori dal rischio di analizzare il lavoro solo nella
dimensione dello sfruttamento.
Marx
è indiscutibilmente il teorico del lavoro salariato come forma di sfruttamento
del lavoro. Ha dimostrato che a dispetto dell’apparenza liberale del contratto
di lavoro, questo induce una subordinazione del lavoro al capitale che è
all’origine del profitto (teoria del plusvalore). Ma, contrariamente a quanto
certi affermano, Marx non è un critico assoluto del lavoro. Per Marx il lavoro
è prima di tutto un’attività naturale dell’uomo, un mezzo per produrre valore
d’uso, ma anche per realizzarsi attraverso l’azione. Marx intende liberare il
lavoro dall’oppressione capitalista che considera tuttavia come un «progresso»
in confronto alle forme precedenti di oppressione fondate sulla soggezione
personale. Dopo un secolo di studi da parte delle scienze psicologiche e
sociali applicate al lavoro, è possibile andare oltre, sulla scia di Marx, per
mostrare che, anche nell’ambito del rapporto salariale, il lavoro non è
riducibile alla sola dimensione del salariato. Affinché l’organizzazione
produttiva funzioni è necessario che il lavoratore investa se stesso nel suo
lavoro, che gli assegni un valore al di là della remunerazione attesa. È anche
per questo che la disoccupazione è così dolorosa: non è semplicemente la
perdita di reddito (più o meno compensata da misure di protezione sociale), ma
è anche una perdita in termini di status, di identità, di stima di sé che si
elabora nel quadro della propria esperienza di lavoro.
Esistono o si stanno
affermando forme non alienate di organizzazione del lavoro nelle nuove forme di
lavoro dipendente? Per altri versi il lavoratore di UBER se è un soggetto
autonomo, dipende anche da una tecnologia di cui non è proprietario.
Trovo
un po’ curioso che si prenda sempre l’esempio di UBER per evocare la crisi
della società salariale, al punto che in Francia si è inventato il termine «ubérisation». In effetti, UBER è una
società che opera nel settore dei trasporti urbani di persone (taxi). Ora, i
conducenti di taxi non costituiscono una professione caratteristica del lavoro
salariato (anche se ci sono dei conducenti salariati). In un certo modo, il
dispositivo di UBER porta, attraverso la piattaforma informatica, ad accrescere
un legame di tipo salariale. UBER è tuttavia attenta a proteggersi
giuridicamente dal rischio che i suoi conducenti siano in Francia “riqualificati”
dai giudici come “salariati”. Ma, al di là di considerazioni strettamente giuridiche
si può, sociologicamente, considerare questi conducenti come dei “quasi
salariati”. UBER ha gli stessi problemi degli altri datori di lavoro per
trattenere il suo personale. Per far questo, in Francia, sta pensando di accordargli
un’assicurazione sanitaria gratuita, anche se facoltativa.
Le recenti riforme della
legislazione lavorista e della negoziazione collettiva in Francia, come in
altri paesi, si configurano come un attacco allo statuto del lavoro salariato
tipico del XX secolo. Che cosa pensate a questo proposito?
Come
abbiamo visto a proposito di UBER la situazione è un po’ paradossale. Senza
dubbio, in Francia, come in molti altri paesi, l’attuale governo è animato da
uno spirito liberale. Vuole ridurre il regime di protezione di cui beneficiano
i lavoratori salariati (in particolare in materia di diritto di licenziamento),
pensando - a torto o a ragione - che questo potrebbe agevolare l’aumento
dell’occupazione e quindi ridurre la disoccupazione. È animato inoltre
dall’idea di favorire la cultura del rischio d’impresa e, dunque, del lavoro
indipendente. Ma, per agevolare un passaggio dall’occupazione salariata verso
l’occupazione indipendente vuole migliorare la copertura collettiva del rischio
per gli indipendenti, per esempio riconoscendogli il diritto a una indennità di
disoccupazione. In tal modo intende avvicinare il loro statuto a quello dei
lavoratori salariati, così come abbiamo visto per i conducenti di UBER. Non
resta, dunque, che domandarsi se si stia assistendo a un dimagrimento del
lavoro salariato o, al contrario, alla sua generalizzazione in nuovi settori
dell’economia.
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