giovedì 27 novembre 2014

Cina: Beijing consensus e le fratture della società armoniosa

di Francesco Pirone

L'ingresso della Cina nell'economia globale ha segnato un cambiamento epocale. Sullo scacchiere geopolitico e nel sistema economico su scala planetaria la Cina si è affermata come nuovo polo di sviluppo, capace di condizionare i modi di crescere dell'area statunitense e di quella europea.
Come ci ha spiegato di recente Domenico De Masi nel suo libro «Mappa mundi»[1] la Cina, sulla scorta della tradizione confuciana, si è sviluppata secondo un modello di vita autonomo che in campo politico-economico si è fondato sullo statalismo che per lunghi periodi è degenerato in estremismo dirigista. La rapida ascesa delle attività economiche cinesi nei mercati internazionali ha portato già dieci anni fa all'affermazione di quello che è stato definito come Beijing consensus, un nuovo modello di crescita che, tra l'altro, sta esercitando una forte influenza sui paesi con bassi livelli di crescita, non soltanto in Asia, ma soprattutto in Africa.
Si tratta di quello che viene definito «economia socialista di mercato», cioè un percorso graduale di sviluppo economico e modernizzazione sociale che si basa sull'assimilazione di alcuni aspetti del liberalismo occidentale: mercato, imprenditorialità, globalizzazione, commercio internazionali. Si tratta, in altri termini, di una correzione dell'ideologia comunista attraverso la promozione della pratica privatistica e della riduzione del ruolo del governo nella regolazione dell'economia. Questo combinato disposto ha prodotto uno sviluppo economico senza precedenti, in un clima forzato di stabilità politica e di ordine sociale. La libertà economica è stata combinata all'oppressione politica, così il lato oscuro del Beijing consensus è rappresentato da regimi politici autoritari, violazione dei diritti umani, migrazioni di massa, sfruttamento del lavoro e crescita esponenziale delle disuguaglianze sociali.
La struttura sociale cinese si presenta profondamente differente rispetto a quelle statunitense ed europea. La popolazione attiva impegnata nell'agricoltura, che vive in aree rurali nonostante l'esodo di massa verso le aree urbane, rappresenta ancora il quaranta per cento della forza lavoro. Si tratta in larga maggioranza di contadini poveri che producono a basso costo per il mercato interno. Un altro quarto della forza lavoro, invece, è impegnata nell'industria manifatturiera che produce con successo per il mercato internazionale e sempre più per la classe media cinese; si tratta di una popolazione urbano-industriale - stratificata al suo interno tra operai, impiegati manager - alimentata dai massicci investimenti occidentali degli ultimi venticinque anni. C'è poi un terzo degli occupati nei servizi: ai tradizionali lavoratori dei servizi poveri, crescono rapidamente quelli impegnati nei servizi ad elevata intensità di conoscenza. Dopo la crescita della manifattura, crescono in Cina le università, i laboratori, gli atelier dove si concentrano professionisti che lavorano con la conoscenza, i simboli, l'informazione, in processi innovativi, creativi e ad elevato valore aggiunto. La «fabbrica del mondo» ha prodotto ricchezza che ha portato anche alla crescita dei livelli d'istruzione e ha alimentato rapidi processi di apprendimento creando, come ci ricorda nelle sue inchieste Paolo Do[2], nuovi ceti sociali impegnati nel lavoro cognitivo, direttamente in competizione con quelli occidentali: dall'alta formazione, ai laboratori di R&S, ai centri di innovazione e creatività.
Questa bozza di cartografia sociale ci consente di intuire che in Cina le disuguaglianze sociali si vanno sempre più polarizzando e che, allo stesso tempo, la presenza della Cina nei mercati internazionali non è più limitata al commercio di prodotti manifatturieri, per posizionarsi nei segmenti alti della divisione internazionale del lavoro, cioè la finanza, le conoscenze, le tecnologie di produzione, l'immaginario.
Le crescenti diseguaglianze sociali e le condizioni di grave sfruttamento in cui si trovano i lavoratori dell'industria rappresentano i limiti alla crescita della «società armoniosa». I conflitti di lavoro, limitandoci a quelli statisticamente rilevati, sono costantemente in crescita. Le ricerche sulle condizioni si lavoro[3] evidenziano la drammaticità degli esodi dalle campagne verso le città, dove alimentano il più vasto proletariato urbano-industriale che vive in condizioni miserevoli e lavora senza diritti e tutele: bassi salari, controllo e disciplinamento rigido, ridotte tutele sindacali, orari e ritmi massacranti, rischi per la salute e assenza di tutele sociali. Condizioni che risultano molto al di sotto degli standard minimi adottati nei paesi occidentali e che restano un caposaldo critico del sistema economico mondiale. A questo si aggiunga pure che oltre al cattivo lavoro è lo sviluppo urbano caotico, l'assenza di protezione sociale e le limitazioni alla libertà politica che completano un quadro che contrasta con i principi politici e sociali delle democrazie occidentali. Appare da questa prospettiva evidente che si tratta di un modello di crescita che per quanto capace di produrre elevata crescita economica, non ha ancora posto le condizioni per conciliare lo sviluppo economico, all'equità sociale e alla libertà politica.


Note

[1] De Masi D., Mappa mundi. Modelli di vita per una società senza orientamento, Rizzoli, Milano, 2013.
[2] Do P., Il tallone del drago. Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina, DeriveApprodi, Roma, 2010.
[3] Si fa qui riferimento soprattutto alle inchieste di Pun Ngai, Cina. La società armoniosa, Jaca Book, Milano, 2012.

[Pubblicato in Link, a. II, n. 3, 2014, pp. 30-31]

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