giovedì 9 novembre 2017

A colloquio con François Vatin

Intervista. Il sociologo francese François Vatin (Université Paris Nanterre) ha trascorso un periodo di studio a Napoli e ha tenuto lo scorso 31 ottobre un seminario presso il Dipartimento di Scienze Sociali dal titolo «La question salariale: actualité d'une vieux problème (avec quelques considérations sur les récentes réformes du marché du travail en France)». A ridosso di quella occasione, insieme io con Davide Bubbico (Università di Salerno), abbiamo avuto un colloquio con Vatin che per una parte è stato pubblicato come intervista sul quotidiano Il Manifesto «Una razione di sale per un salario» il 7 novembre 2017. Di seguito riportiamo la traduzione dell’intero colloquio.


Nei suoi lavori parlando del salariato ne evidenzia la natura ambivalente di emancipazione e di alienazione, ma anche che il suo successo ha posto le basi per un’aspirazione diffusa a tale statuto del lavoro da parte di chi né è rimasto escluso.
L’istituzione salariale è fondamentalmente ambivalente: da una parte è «liberale», si basa sul contratto (espressione della libera volontà delle due parti); dall’altra è l’affermazione della subordinazione del lavoratore al datore di lavoro. È «emancipatrice» perché si è sostituita ad altre forme di controllo sociale del lavoro, basate sulla soggezione personale (schiavitù, servitù o lo stesso patriarcato), ma induce anche, come sottolineava Marx, a una forma di alienazione, poiché il lavoratore non è proprietario del risultato del proprio lavoro ed è sottomesso alle regole dell’organizzazione del lavoro. La controparte di quest’alienazione è una certa sicurezza (comunque relativa) che spiega l’aspirazione crescente al lavoro salariato. Contrariamente a quello che spesso si crede, nel corso di questi ultimi decenni, il numero di lavoratori salariati in paesi come la Francia o l’Italia non è diminuito. Al contrario è aumentato - e in particolare per la salarizzazione crescente delle donne - fino al punto da rappresentare una forma di esclusione per quelli che non rientrano in questa forma di occupazione e non beneficiano del sistema di protezione collegato.

Nel 2000 l’associazione degli industriali francesi (MEDEF) propose in un programma il ritorno ai principi di una “libertà del lavoro”, che originariamente lei ritrova anche tra i primi pensatori socialisti, ciò che implicava un superamento della dimensione del rapporto salariale.
La critica del lavoro salariato è ricorrente e proviene da diversi schieramenti ideologici. I primi pensatori liberali erano molto critici verso il lavoro salariato perché in contraddizione con la loro concezione della completa libertà del soggetto. Molti tra i pensatori socialisti, a cominciare da Marx, erano per l’abolizione del lavoro salariato per le conseguenze alienanti a danno dei lavoratori e per le condizioni di sfruttamento che vi erano implicite. Anche i seguaci del corporativismo, come gli ideologhi del fascismo, indicavano nel superamento del lavoro salariato la condizione necessaria per una vera cooperazione tra padronato e lavoratori. Ciò nonostante il lavoro salariato «resiste», perché corrisponde a una forma di equilibrio, sicuramente fragile e imperfetta, tra forze contraddittorie.

La recente crisi economica ha riproposto una difesa del lavoro salariato per le migliori garanzie di accesso alla protezione sociale. Cosa pensa a questo proposito?
Quando la disoccupazione è alta, il lavoro salariato è rivendicato soprattutto dai lavoratori che desiderano essere protetti rispetto ai rischi delle crisi. In questa fase invece i datori di lavoro rivendicano forme di occupazione le più «flessibili» possibile. Ma questa osservazione può essere fuorviante, poiché quando il mercato del lavoro è favorevole ai salariati (situazione di crescita), sono i datori di lavoro che cercano di stabilizzare la manodopera e ciò spiega le politiche «paternalistiche» che hanno avuto corso in Europa nel XIX e all’inizio del XX secolo. In una recente ricerca che sto conducendo nella regione di Tangeri in Marocco, un’area che sta vivendo una rapida crescita industriale, ho osservato strategie di questo tipo tra le imprese multinazionali del settore auto. Queste hanno il problema di trattenere la manodopera per effetto di un turnover causato dalla maggiore mobilità dei lavoratori che dipende dalla concorrenza tra le imprese, che offrono periodicamente salari più alti per attrarre i lavoratori.

Scrivete che in origine il termine salario indicava il compenso per un’azione criminale, ma che poi nel corso di un secolo il suo significato è completamente cambiato.
La parola «salario» viene dal latino «salarium»: razione di sale del soldato. Questa dunque rinvia all’idea del reclutamento, della sottomissione a colui che paga, come per il mercenario. Questa connotazione negativa del termine si è mantenuta per lungo tempo in francese. Louis Say, economista e industriale, fratello del grande economista liberale Jean-Baptiste Say, scriveva nel 1836: «In francese la parola salario ha quasi sempre un significato negativo. Si dice che quello ha ricevuto un salario per questa cattiva azione; si dice il salario del crimine e non il salario del lavoro». Ancora nel 1932 il giurista Jean Lescudier scriveva: «C’è una tendenza più o meno affermata tra i ceti medi a considerare solo l’operaio come un salariato con tutto quello che questo termine può comportare di peggiorativo con riferimento alle masse...». C’è voluto molto tempo affinché il termine «salario» acquisisse una connotazione positiva. L’evoluzione del significato della parola ha accompagnato l’estensione del lavoro salariato che si è progressivamente generalizzato a tutti gli ambiti della società. Oggi i salariati rappresentano in Francia il 90% della popolazione attiva e la stessa classe «borghese» è ampiamente salariata.

Scrivete che Marx ha messo in guardia i suoi lettori dal rischio di analizzare il lavoro solo nella dimensione dello sfruttamento.
Marx è indiscutibilmente il teorico del lavoro salariato come forma di sfruttamento del lavoro. Ha dimostrato che a dispetto dell’apparenza liberale del contratto di lavoro, questo induce una subordinazione del lavoro al capitale che è all’origine del profitto (teoria del plusvalore). Ma, contrariamente a quanto certi affermano, Marx non è un critico assoluto del lavoro. Per Marx il lavoro è prima di tutto un’attività naturale dell’uomo, un mezzo per produrre valore d’uso, ma anche per realizzarsi attraverso l’azione. Marx intende liberare il lavoro dall’oppressione capitalista che considera tuttavia come un «progresso» in confronto alle forme precedenti di oppressione fondate sulla soggezione personale. Dopo un secolo di studi da parte delle scienze psicologiche e sociali applicate al lavoro, è possibile andare oltre, sulla scia di Marx, per mostrare che, anche nell’ambito del rapporto salariale, il lavoro non è riducibile alla sola dimensione del salariato. Affinché l’organizzazione produttiva funzioni è necessario che il lavoratore investa se stesso nel suo lavoro, che gli assegni un valore al di là della remunerazione attesa. È anche per questo che la disoccupazione è così dolorosa: non è semplicemente la perdita di reddito (più o meno compensata da misure di protezione sociale), ma è anche una perdita in termini di status, di identità, di stima di sé che si elabora nel quadro della propria esperienza di lavoro.

Esistono o si stanno affermando forme non alienate di organizzazione del lavoro nelle nuove forme di lavoro dipendente? Per altri versi il lavoratore di UBER se è un soggetto autonomo, dipende anche da una tecnologia di cui non è proprietario.
Trovo un po’ curioso che si prenda sempre l’esempio di UBER per evocare la crisi della società salariale, al punto che in Francia si è inventato il termine «ubérisation». In effetti, UBER è una società che opera nel settore dei trasporti urbani di persone (taxi). Ora, i conducenti di taxi non costituiscono una professione caratteristica del lavoro salariato (anche se ci sono dei conducenti salariati). In un certo modo, il dispositivo di UBER porta, attraverso la piattaforma informatica, ad accrescere un legame di tipo salariale. UBER è tuttavia attenta a proteggersi giuridicamente dal rischio che i suoi conducenti siano in Francia “riqualificati” dai giudici come “salariati”. Ma, al di là di considerazioni strettamente giuridiche si può, sociologicamente, considerare questi conducenti come dei “quasi salariati”. UBER ha gli stessi problemi degli altri datori di lavoro per trattenere il suo personale. Per far questo, in Francia, sta pensando di accordargli un’assicurazione sanitaria gratuita, anche se facoltativa.

Le recenti riforme della legislazione lavorista e della negoziazione collettiva in Francia, come in altri paesi, si configurano come un attacco allo statuto del lavoro salariato tipico del XX secolo. Che cosa pensate a questo proposito?
Come abbiamo visto a proposito di UBER la situazione è un po’ paradossale. Senza dubbio, in Francia, come in molti altri paesi, l’attuale governo è animato da uno spirito liberale. Vuole ridurre il regime di protezione di cui beneficiano i lavoratori salariati (in particolare in materia di diritto di licenziamento), pensando - a torto o a ragione - che questo potrebbe agevolare l’aumento dell’occupazione e quindi ridurre la disoccupazione. È animato inoltre dall’idea di favorire la cultura del rischio d’impresa e, dunque, del lavoro indipendente. Ma, per agevolare un passaggio dall’occupazione salariata verso l’occupazione indipendente vuole migliorare la copertura collettiva del rischio per gli indipendenti, per esempio riconoscendogli il diritto a una indennità di disoccupazione. In tal modo intende avvicinare il loro statuto a quello dei lavoratori salariati, così come abbiamo visto per i conducenti di UBER. Non resta, dunque, che domandarsi se si stia assistendo a un dimagrimento del lavoro salariato o, al contrario, alla sua generalizzazione in nuovi settori dell’economia.

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