giovedì 15 ottobre 2020

Una comunità migliore

 

Recensione. RICHARD SENNETT, Una comunità migliore, Roma, Castelvecchi, 2019, pp. 48 (una versione rivista e ampliata è stata pubblicata in «La critica sociologica», vol. LIV, n. 214, estate 2020).

L’angloamericano Richard Sennett, classe 1943, appartiene alla ristretta cerchia delle celebrità sociologiche globali. I suoi lavori hanno da decenni un’ampia circolazione su scala mondiale e hanno influenzato non soltanto il dibattito disciplinare, ma anche l’opinione pubblica. La popolarità dell’Autore e il successo pubblico di alcune sue idee spiegano le ragioni della rapida e quasi completa traduzione dei suoi libri nelle principali lingue del mondo e anche dei suoi interventi pubblici non accademici. In questa ultima categoria si può collocare questo piccolo libro che offre al pubblico italiano la traduzione – di Maria Chiarappa – di un’intervista realizzata dalla canadese Eleanor Wachtel e originariamente pubblicata in inglese nel 2013 per la rivista «Brick. A Literary Journal».
Superato il sospetto di trovarsi di fronte ad un’operazione editoriale prevalentemente commerciale, si può apprezzare un testo che, per quanto breve, offre più di uno spunto di riflessione sociologica, oltre ad un’esperienza di rapida e gradevole lettura.
La data della conversazione è cruciale per comprendere le scelte degli argomenti di discussione: l’intervista, infatti, si realizza quando Sennett è nel pieno del suo progetto di trilogia sull’homo faber, subito dopo l’uscita del secondo volume – Together (2012) – dedicato alla cooperazione sociale, e alla vigilia della preparazione del terzo libro – Building and Dwelling, uscito poi nel 2018 – sul rapporto tra ambiente fisico della città e forme dell’abitare. Lo stile dell’intervista consente a Sennett di presentare le sue argomentazioni intrecciando esperienze personali, rimandi a ricerche passate e collegamenti con l’attualità del dibattito pubblico (ad esempio il movimento di Occupy Wall Street), arrivando però a presentare con schematica semplicità l’essenza delle sue tesi, in particolare sul tema della ‘cooperazione’.
Sennett sottolinea che, nonostante le retoriche manageriali sulla collaborazione, le pratiche sociali di cooperazione si sono ‘deformate’ per via della pressione alla competizione e all’individualismo. Nel campo professionale, per esempio, è fortemente stigmatizzata l’idea del bisogno di un’altra persona per poter svolgere il proprio compito: «gli uomini sono libertari, vogliono essere lasciati soli, pensano che l’individualismo sia la chiave dell’innovazione. È un ammasso di attitudini culturali che hanno represso l’idea che le persone abbiano bisogno e possano, o almeno potrebbero, fidarsi degli altri» (p. 42). Per questo è importante ricordare – spiega Sennett – che la cooperazione non è una facoltà umana innata, immediata, ma che si impara ed è socialmente condizionata: «Dal mio punto di vista, quell’arduo modello di cooperazione, nel senso di collaborare con persone che non conosci o che nemmeno ti piacciono, con persone che sono diverse, quel genere complicato di cooperazione va appreso» (p. 11). Sul modo di apprendere a cooperare, ci invita poi a discutere i limiti dell’empatia e i rischi dell’essere ‘iperempatici’. Qui Sennett critica l’idea che «sia necessario sentire ciò che sentono gli altri, privilegiare la solidarietà e la condivisione» (p. 15); l’apprendimento della forma più complessa di cooperazione, invece, deve partire da ‘pratiche dialogiche’ e dall’accettazione che «non possiamo pensare di esserci dentro tutti alla stessa maniera, ma collaboriamo lo stesso a dispetto del fatto che […] le persone non si capiscono veramente fra loro» (Ibidem). In ciò aiutano atti linguistici non assertivi, di tipo dubitativi, incerti e informali che sono efficaci nel realizzare la cooperazione come ‘pratica delle prove’ e non come ‘performance’.
Il discorso passa poi al tema della cooperazione nello spazio pubblico, nella vita in comune, con particolare riguardo alle forme di vita urbana nelle aree metropolitane, dove si incontrano persone che non si conoscono o che sono estranee le une per le altre e che pure devono trovare il modo di interagire in maniera disinteressata per non confliggere. Nel mondo contemporaneo – spiega Sennett – nelle grandi metropoli globali segnate da intensi flussi di mobilità: «Nei luoghi in cui abitano, le persone non si mescolano, non interagiscono tra di loro» (p. 33). A ciò viene aggiunto il fatto che lo sviluppo delle città è condizionato da una élite che vive e usa la città senza sentirsi di appartenere ad essa, senza esserle legata, senza sentire il bisogno di diventare cittadini partecipi o di assumersi una responsabilità per la città. Questo atteggiamento, che connota il neocapitalismo, erode le fonti della cooperazione sociale e per questa via indebolisce la società civile, portando alla svalorizzazione dell’azione motivata dal ‘bene comune’.
Questi elementi di riflessione nell’intervista si intrecciano con episodi dell’esperienza professionale di Sennett e delle sue relazioni con personaggi del calibro di Saul Alinsky, David Riesman, Hannah Arendt e Jane Jacobs, dando così qualche traccia storica dei problemi affrontati, utili a stimolare più approfondite ricerche sulla storia del pensiero sociologico statunitense.

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