giovedì 9 luglio 2015

Terza età e invecchiamento attivo: la partecipazione sociale degli anziani in Italia

Con l’allungamento della vita media cambia il significato sociale dell’invecchiamento e delle età anziane: si vive più a lungo e in buona salute e i modelli di ruolo per gli anziani tradizionali risultano in continua trasformazione per adeguarsi e dare senso alle condizioni esistenziali nella terza età. La partecipazione sociale, in particolare, rappresenta un ambito di vita in rapida trasformazione che rappresenta un buon indicatore della prospettiva di ri-significazione delle età anziane che va sotto l’etichetta di “invecchiamento attivo». Su questo si sofferma Maria Maione che nella sua relazione finale dal titolo «Terza età e invecchiamento attivo: la partecipazione sociale degli anziani in Italia» presenta un’analisi che riguarda i cambiamenti comportamentali degli italiani nell’ultimo decennio.

Terza età e invecchiamento attivo: la partecipazione sociale degli anziani in Italia

In questo lavoro di relazione finale si analizza un tema rilevante per la comprensione della condizione degli anziani in Italia, la partecipazione sociale, cioè quanto essi siano attivi nella sfera pubblica una volta raggiunta l’età anziana.
L’invecchiamento della popolazione può essere definito come l’aumento, in termini assoluti e percentuali, della popolazione di fascia d’età anziana rispetto alla popolazione nel suo totale.

Come di consueto si fa negli studi sociologici degli aspetti demografici all’interno della fascia d’età anziana si può distinguere tra la “terza età” (Laslett, 1992), che va convenzionalmente dai 60-65 ai 75 anni ed indica quella fase della vita caratterizzata da buone condizioni di salute, inserimento sociale e dall’ aumento del tempo libero e delle possibilità di realizzazione personale, dalla “quarta età” che è quella che va convenzionalmente dai 76 anni in poi ed è caratterizzata maggiormente dalla dipendenza e dal progressivo decadimento fisico.
Questo elaborato si concentra principalmente sugli anziani che rientrano nella “terza età” per analizzarne caratteristiche e in particolare la partecipazione sociale in quanto, in tempi recenti, si sta assistendo sempre di più ad una maggior partecipazione alle attività sociali delle fasce d’età anziane. Si è passati, quindi, da un periodo di domanda di assistenza da parte degli anziani a un periodo in cui essi rappresentano una risorsa per la società.
La relazione è suddivisa in tre capitoli.
Nel primo capitolo si analizza il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione italiana, in particolare com’è cambiato il quadro demografico del nostro Paese, quali sono le principali caratteristiche, cause e implicazioni sociali di questo fenomeno.
Secondo i dati Istat l’Italia, rispetto agli Stati membri dell’Unione Europea, è il paese con la più alta incidenza (21,4%) di popolazione anziana: al primo gennaio 2014 la popolazione residente di età 65 anni e più è circa 13 milioni su un totale complessivo della popolazione di quasi 61 milioni.
Per capire meglio la portata del fenomeno si analizzano e confrontano i dati Istat relativi alla struttura della popolazione per fasce d’età nel lungo periodo, dal 1951 al 2011. Da questo confronto si osserva che la componente anziana (65 anni e più) è progressivamente aumentata passando dall’8,2% al 20,8%, mentre è diminuita la componente adulta (15-64 anni) e soprattutto quella giovanile (0-14 anni) che è passata dal 26,1% al 14,0%.
Per cogliere con maggiore chiarezza il progressivo invecchiamento si analizzano anche gli indici di struttura della popolazione italiana (indice di vecchiaia, indice di dipendenza anziani e indice di dipendenza  strutturale). Dai dati emerge una progressiva crescita dell’indice di vecchiaia (che è passato da 31,4% nel 1951 al 148,6% nel 2011) e dell’indice di dipendenza anziani (che è passato da 12,5% nel 1951 a 32,0% nel 2011).
All’invecchiamento della popolazione contribuiscono sia fenomeni di “invecchiamento dall’alto” cioè l’allungamento della vita media ottenuto grazie ai progressi della medicina, il maggior benessere socio-economico e la possibilità di accedere alle cure mediche e alla prevenzione, sia fenomeni di “invecchiamento dal basso” ossia il calo del tasso di fecondità e di natalità dovuto a vari fattori tra cui quello della scolarizzazione di massa, l’emancipazione della donna e il loro ingresso nel mercato del lavoro, la precarietà del lavoro, l’insicurezza riguardante il futuro, la carenza di servizi rivolti ai minori.
Nel secondo capitolo si introducono alcune teorie sociologiche soffermandosi principalmente sulla teoria del disimpegno sociale. Tale teoria è stata formulata agli inizi degli anni ’60 da Elaine Cumming e William Henry pubblicando il loro lavoro Growing Old: the Process of Disengagement del 1962.
Secondo questo approccio, man mano che si invecchia, l’”intorno” sociale dell’anziano si ridurrebbe diminuendo le relazioni sociali che sarebbero limitate, quasi esclusivamente, a quelle parentali.
Questa teoria ha trovato ben presto autori e approcci in opposizione ad essa. Fin da subito sono emerse teorie psicologiche in opposizione: la teoria dell’attività (1963) che afferma che il disimpegno non è inevitabile, ma la popolazione anziana continua ad occupare ruoli e svolgere compiti e attività nel corso della vita, ciò genera un senso di soddisfazione complessivo, rispetto alla propria esistenza, è attraverso l’attività che gli individui si sentiranno efficienti e socialmente validi senza che si manifesti quel senso d’inutilità, quella mancanza di speranze e quella depressione che affligge alcuni di loro; e la teoria della continuità (1976) che sostiene che gli anziani hanno la tendenza e il bisogno a dare e mantenere continuità rispetto alle proprie abitudini, alle prospettive di vita sviluppate nel loro corso di vita.
Altre critiche sono state mosse da Arlie Russell Hochschild (1975) e Danilo Giori (1978).
Hochschild suggerisce di considerare il processo del disimpegno come una dimensione distinta dall’invecchiamento: il primo sarebbe determinato da fattori di ordine socio-economico e psicologico, frutto di un processo normativo e sociale, il secondo da fattori di carattere biologico. In altri termini il disimpegno sarebbe un processo sociale non una costante biologica.
Giori afferma che le teorie che si basano sul disimpegno “offrono un forte giustificazionismo pseudo-scientifico alla pratica dell’emarginazione degli anziani nella società attuale […] tendono a sottovalutare la spinta sociale all’emarginazione che spesso può essere scambiata per disimpegno individuale. Non bisogna invece dimenticare che tale spinta è un fenomeno sociale indotto dalla società capitalistica e dalle sue sovrastrutture ideologiche che valorizzano l’uomo solo in quanto produttore di profitto” (Giori, 1978: 17-18).
Da almeno una decina d’anni, diversi soggetti, tra cui importanti organizzazioni internazionali come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), hanno sviluppato una riflessione complessiva sul concetto e sulle politiche di “invecchiamento attivo”. L’OMS è giunta a definire l’invecchiamento attivo come il processo di ottimizzazione delle opportunità per la salute, per la partecipazione e per la sicurezza al fine di migliorare la qualità della vita degli anziani. Questo approccio consente la realizzazione di quelle potenzialità funzionali al raggiungimento o al mantenimento del benessere fisico, sociale e mentale, durante il corso di vita; in particolare l’OMS sostiene la partecipazione degli anziani alla vita della società, secondo i propri bisogni, desideri e capacità. In questo senso il termine “attivo” non si riferisce alla sola capacità di essere fisicamente attivi o di partecipare al mercato del lavoro, ma alla partecipazione completa alla vita sociale, culturale e civile.
In questa prospettiva, quindi, l’anziano non è visto come soggetto passivo destinatario di cure e sostegno, ma come un individuo fisicamente autonomo, in grado di produrre risorse per la società e vivere pienamente.
L’allungamento del ciclo di vita si accompagna, nella maggioranza dei casi, con un miglioramento delle condizioni fisiche e mentali: di fatto entriamo in una società in fase di “svecchiamento” (counter-ageing society). Le generazioni in età avanzata sono oggi chiaramente più “giovani” e in miglior stato di salute di quanto non lo fossero nel passato.
Nel terzo capitolo, quindi, si analizza la partecipazione sociale degli anziani in Italia attraverso i dati statistici dell’Istat provenienti dall’indagine campionaria “Aspetti della vita quotidiana”.
Premesso che gli anziani si dedicano di più alla famiglia si analizzano le attività svolte in ambito pubblico: attività gratuite a beneficio di altri, reti di amici, associazionismo, partecipazione politica, pratica religiosa. Tali attività inoltre sono state confrontate anche nei diversi anni per poter fare un’analisi diacronica.
Dall’analisi di tutti questi dati emerge che le fasce d’età anziane si dedicano maggiormente al volontariato, a svolgere attività gratuite a beneficio di altri: l’Istat rileva nel 2013 che esse sono quelle in cui si riscontrano le maggiori percentuali (15,9% nella fascia di età 55-64 anni) e il maggior numero medio di ore (26,2 nella fascia d’età 65-74 anni) dedicate ad attività di volontariato. Per quanto riguarda queste attività, quindi, si può sostenere che nelle età mature, quelle della terza età, escludendo quelle più avanzate, dove insorgono problemi di autonomia e di salute, corrispondono maggiori tassi di partecipazione per quanto riguarda lo svolgimento di attività gratuite a beneficio di altri.
Secondo Mirabile (2011) tra le motivazioni personali che portano un individuo a dare il proprio contributo gratuito alla società c’è sicuramente il fatto di tornare a occupare un tempo divenuto ormai troppo libero e vuoto o motivazioni legate alla valenza attribuita al volontariato in quanto tale o ancora si può iniziare per caso, coinvolti da persone interessate a quel mondo, per poi scoprire che l’esperienza è interessante, che si dà e si prende in un continuo scambio esistenziale che alla lunga migliora la vita.
Per quanto riguarda la rete di amici si evidenzia che, nei tre anni considerati (2000, 2006, 2013) la percentuale della popolazione di 6 anni e più che si incontra con gli amici nel tempo libero aumenta dal 2000 al 2006 per poi diminuire leggermente dal 2006 al 2013. Se si osservano le differenze nelle diverse fasce d’età si nota che nei vari anni la percentuale è molto alta per le fasce d’età giovanili (tra gli 11 e i 24 anni), che hanno più tempo da dedicare agli amici non essendo impegnati in attività lavorative, essa tende a diminuire man mano che l’età aumenta e ci si avvicina a quella anziana e molto anziana.
Vengono poi analizzati i dati riguardanti l’associazionismo, in anni più recenti (2013) la fascia d’età 60-64 anni risulta quella che ha la percentuale maggiore di attività svolte in associazioni di vario tipo (ecologiche, per i diritti civili, per la pace, culturali, ricreative, di volontariato).
Per quanto riguarda la partecipazione politica è stata analizzata la frequenza con cui la popolazione si informa di politica nel 2001, 2005 e 2010. Dal confronto emerge che in generale dal 2001 al 2005 la percentuale diminuisce per poi aumentare nel 2010. Le fasce di età che maggiormente si informano sulla politica sono quelle adulte (45-54 anni nel 2001 e nel 2005 e 55-59 anni nel 2010). Man mano che ci si avvicina alle fasce d’età più anziane la percentuale tende a diminuire.
Un ulteriore elemento che viene analizzato riguarda la percentuale di popolazione che si reca in un luogo di culto. Dal confronto emerge in generale che dal 2000 al 2010 è diminuita la percentuale di persone che frequentano regolarmente tali luoghi. Ciò può essere spiegato dal processo di secolarizzazione che ha investito i paesi occidentali in età contemporanea. Se andiamo a guardare le fasce d’età notiamo che la percentuale più alta si riscontra nelle classi giovanissime, essa tende a diminuire man mano che ci si avvicina all’età adulta per poi risalire in età anziana.
Per il caso italiano, quindi, le evidenze empiriche raccolte e analizzate possono essere interpretate in misura maggiore dalle prospettive sociologiche che si basano sulla teoria dell’attività, d’altra parte esse risultano incompatibili con gli approcci che si ispirano alla teoria del disimpegno. Alla luce di questi risultati la prospettiva dell’invecchiamento attivo risulta quella maggiormente in grado di interpretare i dati che abbiamo mostrato da cui si osserva che l’anziano è una “risorsa” per la società piuttosto che un soggetto passivo solo destinatario di cure e sostegno.

Bibliografia citata
Cumming E., Henry W. E. (1961), Growing Old: The Process of Disengagement, Basic Books, New York.
Giori D. (1978), Essere vecchi. Vecchiaia e processi di emarginazione nella società capitalistica, Marsilio, Venezia.
Hochschild A. R. (1975), “Disengagement Theory: A Critique and Proposal” in American Sociological Review, n. 5, pp. 553-569.
Laslett P. (1992), Una nuova mappa della vita. L’emergere della terza età, Il Mulino, Bologna.
Mirabile M. L. (2011), “Anziani come risorsa e invecchiamento attivo”, in Golini A., Rosina A. (a cura di), Il secolo degli anziani. Come cambierà l’Italia, Il Mulino, Bologna, pp. 161-182.

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